Per una apologia del «mestiere di storico»: la storiografia come pratica scientifica
Maria Barillà
Distinguished researcher, historian, political scientist, author.
Il 16 giugno 1944 nei pressi di Lione, la città che gli aveva dato i natali cinquantasette anni prima, March Bloch – senza tema di smentita uno dei più grandi storici, probabilmente il più grande, del Novecento – venne fucilato dai Tedeschi. Era stato catturato dai militi della Gestapo al comando di Klaus Barbie (“il boia di Lione”) l’8 marzo di quello stesso anno. La sua esecuzione sommaria, avvenuta in una località detta «Les Roussilles», presso Saint-Didier-de-Formans, sulla strada per Trevoux, a pochi chilometri da Lione, fu l’atto finale di un drammatico periodo di prigionia nella fortezza di Montluc dove era stato ripetutamente torturato.
Nel 1929, assieme al collega e sodale Lucien Febvre, Bloch, all’epoca docente di Storia del Medioevo presso l’Università di Strasburgo, aveva fondato la rivista «Annales d’histoire économique et sociale», subito divenuta un punto di riferimento imprescindibile in ambito storiografico. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’occupazione della Francia da parte della Germania nazista e l’instaurazione del regime collaborazionista di Vichy incarnato dal maresciallo Philippe Pétain erano stati per lui, appartenente ad una famiglia alsaziana di origini ebraiche, un autentico spartiacque: allontanato dalla docenza universitaria perché ebreo e poi reintegrato «per i servizi scientifici eccezionali resi alla Francia», Bloch ben presto aveva scelto la clandestinità e aveva deciso di scendere in campo. Nel 1943, infatti, era entrato a far parte della rete Franc-Tireur della Resistenza francese e proprio a causa di questa militanza era stato arrestato dalla Gestapo.
Nell’immediato secondo dopoguerra fra le carte di Marc Bloch è ritrovato un manoscritto intitolato Apologie pour l’histoire ou Comment et pourquoi travaille un historien. Si tratta di un’opera incompiuta perché è lo scritto al quale Bloch stava lavorando quando fu catturato.
Nonostante la sua frammentarietà Lucien Febvre nel 1949 decide di pubblicare questo manoscritto col titolo Apologie pour l’Histoire ou Mètier d’historien. Nel 1993 Ètienne Bloch, figlio maggiore di Marc Bloch, cura la pubblicazione di una seconda edizione dell’opera integrata da frammenti provenienti da due manoscritti inediti del padre di cui l’edizione curata da Febvre non aveva tenuto conto.
Autentico testamento spirituale di Marc Bloch, questo saggio è diventato il più classico fra i trattati di metodologia della ricerca storica e tutt’oggi è unanimemente considerato la Bibbia degli storici, una sorta di vademecum del «mestiere di storico».
Non sorprenda, dunque, la scelta di partire da Marc Bloch e dal suo aureo libricino per avviare la nostra breve riflessione dedicata al mestiere di storico.
Scienza «degli uomini nel tempo», così Marc Bloch definisce la Storia o, per meglio dire, la pratica storiografica [1]. Si tratta di una definizione in cui, in mirabile sintesi, è condensata l’essenza stessa del mestiere di storico nel senso che in essa sono contenute le risposte alle domande che stanno alle base di questo mestiere. Qual è, infatti, l’oggetto di studio della Storia? Bloch, connotando la Storia come disciplina umanistica per antonomasia, risponde che oggetto della Storia sono «gli uomini nel tempo», espressione di grande pregnanza che da una parte pone l’accento sugli uomini al plurale e non sull’uomo inteso come entità astratta [2] e dall’altra parte, con il riferimento al «tempo», in linea generale sottolinea il ruolo di primaria importanza rivestito in ambito storiografico dalla cronologia e dalla periodizzazione e, più in particolare, ribadisce con forza la rilevanza assunta da quella peculiare operazione compiuta dallo storico che è la contestualizzazione. Infatti il tempo di cui parla Bloch e da cui uno storico non può assolutamente prescindere è soprattutto quello che potremmo definire il colore, lo spirito di un’epoca. «[I]l tempo della storia è» – per dirla con Bloch – «[…] il plasma stesso in cui nuotano i fenomeni e quasi il luogo della loro intelligibilità» nel senso che gli uomini, le loro idee, le loro istituzioni politiche, economiche, sociali sono figli del proprio tempo ossia del contesto in cui nacquero e la loro comprensione non ne può, per questo, prescindere[3].
Ma soprattutto la definizione di Storia fornita da Bloch risponde a un’altra domanda, la più importante ai fini della nostra trattazione, ossia ci dice che cosa è la Storia: la Storia, asserisce Bloch, è scienza. Del resto che la pratica storiografica dovesse essere inserita nel novero delle scienze era un dato di fatto incontrovertibilmente acquisito anche ai tempi di Bloch che, pure, sentì l’esigenza di ribadirlo, di rimarcarlo con forza col chiaro intento di difendere la Storia dai suoi detrattori, da coloro che tale scientificità della Storia negavano o mettevano in dubbio. Di qui il ricorso al termine «apologia» che compare nel titolo che Bloch sceglie di dare al suo manoscritto ed è conservato nelle due edizioni successive dell’opera, un termine impiegato da Bloch non tanto o non soltanto nella sua accezione più lata di esaltazione, elogio quanto, appunto, nel suo significato più stretto, etimologico, di difesa.
Proprio in questa esigenza di difendere la scientificità della Storia e, con essa, quella del «mestiere di storico» avvertita con grande urgenza da Marc Bloch risiede, a nostra avviso, l’attualità di Apologia della Storia o mestiere di storico perché, ancora una volta, oggi come agli inizi degli anni Quaranta del Novecento, la Storia, o per meglio dire, la pratica storiografica, il mestiere di storico sono cinti d’assedio. Chi sono oggi i detrattori della scientificità della Storia? Sono tutti coloro che, in numero crescente, sono persuasi del fatto che la passione per lo “studio del passato” sia un requisito sufficiente per praticare il mestiere di storico. Per costoro la pratica del mestiere di storico non richiede specifiche competenze e conoscenze. Un simile approccio naif, istintivo e spontaneista, alla pratica storiografica è solo apparentemente privo di conseguenze e ha anzi prodotto guasti enormi che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Derubricata a dilettevole passatempo, infatti, la pratica storiografica nel sentire comune si è progressivamente deprofessionalizzata acquisendo sempre più i caratteri della δόξα e perdendo quelli della ἐπιστήμη. Da scienza a opinione, a congettura: uno scivolamento pericoloso aggravato e accelerato dall’atteggiamento di sufficienza, quando non di aperto disprezzo, assunto nei confronti degli storici di mestiere, identificati con gli storici accademici, da quanti – scrittori, giornalisti, opinionisti – pubblicano saggi presentati come saggi storici ma che di storico, in realtà, hanno solo il nome. Il disprezzo per “l’Accademia”è diventato ripudio della pratica storiografica scientificamente condotta, l’unica degna di questo di nome.
Ecco allora l’importanza e l’urgenza di tornare a riflettere «sul mestiere di storico», sulla sua scientificità, sulle sue fonti. Solo così avremo la possibilità di distinguere gli storici dagli pseudostorici e la storia dalla pseudostoria.
Nostro punto di partenza è il concetto di fonte storica. Cosa è una fonte storica e quali sono le fonti della storiografia? Lo storico, studioso «degli uomini nel tempo», deve misurarsi con una difficoltà del tutto peculiare. A differenza di un biologo, di un chimico, di un fisico, infatti, lo storico per ovvi motivi non ha la possibilità di osservare e di indagare il proprio oggetto di studio (ossia il frammento di passato che intende ricostruire) in modo diretto ma solo in modo mediato, indiretto. L’indispensabile tramite fra lo storico e l’oggetto del suo studio è costituito proprio dalle fonti storiche. Fonti storiche per eccellenza sono le cosiddette fonti primarie ossia i documenti, intendendo con questo termine innanzitutto i documenti in senso stretto ossia le testimonianze, le tracce del passato intese come testi scritti conservati in primo luogo negli Archivi ma anche nelle biblioteche. Nel corso del tempo, però, soprattutto grazie al forte impulso innovatore proveniente dalla rivista «Annales d’histoire économique et sociale», il termine documento ha dilatato il proprio contenuto fino a ricomprendere entro i propri confini tutte le tracce, tutte le testimonianze del passato siano esse materiali o immateriali, scritte o orali. Eloquenti al riguardo sono le osservazioni di Lucien Febvre:
La storia si fa con i documenti scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza documenti scritti se non ce ne sono. Con tutto ciò che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per produrre il suo miele se gli mancano i fiori consueti. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietre fatte dai geologi e con le analisi di metalli fatte dai chimici. Insomma, con tutto ciò che, appartenendo all’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti, e i modi di essere dell’uomo. Forse che tutta una parte, la più affascinante, del nostro lavoro di storici non consiste proprio nello sforzo continuo di far parlare le cose mute, di far dire loro ciò che da sole non dicono sugli uomini, sulle società che le hanno prodotte, e di costituire finalmente quella vasta rete di solidarietà e di aiuto reciproco che supplisce alla mancanza del documento scritto?[4]
In una ricerca storica sono fonti primarie tutti i documenti, intesi nell’accezione che abbiamo appena illustrato, coevi al periodo storico oggetto di indagine e di studio.
A questa prima categoria di fonti si aggiungono anche le cosiddette fonti secondarie (che molti storici sono in realtà restii a considerare fonti in senso proprio) in cui rientrano gli studi, i contributi già forniti dalla storiografia in merito all’oggetto di studio di una determinata ricerca storica.
«Pas des documents, pas d’histoire», ossia «senza documenti niente storia» asserisce Marc Bloch ribadendo così il ruolo centrale svolto dai documenti in una ricerca storica. I documenti, infatti, sono l’irrinunciabile materia prima di una ricerca storica tanto è vero che se dopo una sommaria ricognizione preliminare lo studioso dovesse constatare l’insufficienza o, peggio ancora, la mancanza di fonti documentarie concernenti l’oggetto che ha scelto di indagare dovrà rinunciare alla propria ricerca.
Occorre però precisare che il riferimento più o meno corposo a documenti, in particolare a documenti d’archivio, in un saggio non è di per sé garanzia o indice di scientificità della ricerca storica che lo ha prodotto. La scientificità di una ricerca storica, infatti, non è insita nella “materia prima” oggetto del suo studio (quindi nelle fonti, nei documenti) ma deriva, discende dalle modalità, ossia dal metodo, con il quale questa “materia prima” è analizzata e studiata. È quindi il metodo impiegato dallo studioso a conferire scientificità a una ricerca storica intendendo per metodo l’insieme delle tecniche e degli strumenti operativi di cui uno storico può fare uso per iniziare, svolgere e concludere la propria ricerca.
Progressivamente affinato nel corso dei secoli, con contributi decisivi soprattutto durante la temperie positivistica, il metodo che fa da naturale substrato alla pratica storiografica è l’essenza stessa del mestiere di storico, è la quiddità che contraddistingue uno storico di professione. Momento centrale di questo metodo è la critica delle fonti volta ad accertare la loro autenticità (critica esterna) attendibilità (critica interna). A rendere necessaria questo tipo di valutazione è la natura stessa delle fonti storiche. Cosa sono infatti le fonti storiche? Lo abbiamo detto, sono tracce, testimonianze del passato. In questa definizione molto generale di fonte storica la parola chiave è “testimonianza”. Lasciando per un attimo l’ambito storiografico e facendo un’incursione in ambito giudiziario pensiamo a un testimone chiamato a deporre: il testimone, e il magistrato che dovrà esaminarlo lo sa bene, potrà dire la verità e si spera che lo faccia, ma c’è anche la possibilità che commetta degli errori in modo del tutto involontario, oppure che menta deliberatamente, o ancora che ometta più o meno consapevolmente fatti importanti o che distorca la realtà. Raccolta la deposizione, sarà compito del magistrato e degli organi inquirenti valutare l’attendibilità del testimone cercando dei riscontri cioè cercando di verificare e di accertare la veridicità delle sue parole.
Ecco, lo storico dinanzi alle fonti, imprescindibile materia prima del suo mestiere, si trova nella stessa situazione in cui si trova un magistrato di fronte alla deposizione di un testimone ossia è chiamato a verificare, a riscontrare, le fonti che saranno le pezze d’appoggio della sua ricerca scientifica. Lo storico riscontrerà le proprie fonti sottoponendole a una rigorosa e sistematica analisi volta appunto a valutare, o per meglio dire a giudicare, la loro autenticità ed attendibilità.
Proprio la critica delle fonti è la fase più tecnica di una ricerca storica scientificamente fondata, quella in cui lo storico dimostra la propria acribìa ossia la propria precisione meticolosa, il proprio rigore; è quella fase in cui lo studioso è chiamato a mettere in campo competenze e conoscenze specifiche prese in prestito dalle c. d. discipline ausiliarie della storia come la paleografia, la sfragistica, la diplomatica, la filologia ma anche la psicologia della testimonianza.
Solo i documenti che superano il duplice vaglio della critica delle fonti, in genere, verranno prese in considerazione dallo storico. Talora, però, accade che fonti incontestabilmente apocrife e inattendibili assumano, cionondimeno, grande rilevanza per lo storico per le conseguenze che nel tempo hanno prodotto: basti per esempio pensare ai rilevantissimi effetti prodotti da documenti indubbiamente apocrifi e assolutamente inattendibili come La Donazione di Costantino o I Protocolli dei Savi di Sion.
Ciò detto, però, occorre rilevare che il complesso di insegnamenti tecnici e di accorgimenti pratici cristallizzati nel corso del tempo sotto l’etichetta di metodologia della ricerca storica in cui tutti gli storici si riconoscono forniscono un bagaglio tecnico-strumentale molto generale, di per sé non sufficiente ad affrontare il lavoro sul campo. Questo vuol dire non solo che ogni branca disciplinare della storiografia necessita di un proprio metodo specifico ma anche, che, come rivela il grande storico e metodologo Federico Chabod nelle sue Lezioni di metodo storico, «ogni ricerca abbisogna di un procedimento metodologico “suo” proprio, che nessuna teoria generalizzante potrebbe mai dare e che solo la “discrezione” del singolo studioso, il suo senso storico, il suo, direi, fiuto, affinato dall’esperienza, gli possono suggerire». Non possiamo, dunque, che concordare con lo storico e metodologo Angelo d’Orsi che al riguardo così chiosa: «Ritenere quindi che “prima” si acquisisca il metodo, che esso sia valido per ogni disciplina storica, e per qualsivoglia tipo di indagine; immaginare, che, “poi” sulla base di codesto metodo, si svolgano le ricerche, traducendo, infine, i risultati in un racconto, sarebbe peccare di ingenuità»[5].
Inoltre l’esperienza, il lavoro sul campo, la consuetudine direi quotidiana con i documenti consente allo storico di professione di affinare una capacità che nella pratica storiografica è indispensabile: quella di raffrenare la propria ineliminabile soggettività, le proprie passioni, le proprie emozioni riuscendo in tal modo a tenere nettamente separato nella propria attività di ricerca il momento conoscitivo, della obiettiva ricostruzione dei fatti «sine ira ac studio», fine ultimo di una storiografia correttamente ossia scientificamente praticata, dal momento interpretativo e da quello valutativo. È un insegnamento di Max Weber su cui tutti gli storici di professione concordano. L’obiettività che deve contraddistinguere gli scritti di uno storico di professione discende da quella che Marc Bloch definisce l’«onesta sottomissione alla verità» di quanti scelgono di praticare questo mestiere: si tratta di un atteggiamento che implica non solo un assoluto rigore filologico e documentale ma anche la disponibilità a scartare le tesi aprioristicamente formulate come iniziale ipotesi di lavoro quando contraddette dai risultati della ricerca.
Proprio l’incapacità di uno studioso a tenere a bada la propria soggettività è di per sé un indice di scarso rigore scientifico e normalmente produce scritti faziosi, di parte. Si tratta scritti che Benedetto Croce – grande filosofo idealista che sulla Storia ha lungamente meditato – ha giustamente etichettato come «pseudostorie» in cui la pratica storiografica, derogando al suo fine ultimo che è eminentemente conoscitivo, diviene invece strumento per il perseguimento di altri fini – ideologici e politici – ad essa del tutto estranei.
Conoscenze e competenze specifiche, scrupoloso e puntiglioso rigore metodologico, ma anche la capacità peculiare di porsi domande sempre nuove (a partire dalla Die Frage, la domanda conoscitiva che avvia ogni ricerca storica scientificamente fondata), di interrogare i documenti, di per sé testimoni reticenti, massa inerte, sono gli strumenti che devono necessariamente far parte della cassetta degli attrezzi di uno storico. Appare dunque chiaro che, contrariamente a quanto da più parte si asserisce, il «mestiere di storico» non è un mestiere che possa essere improvvisato sulle ali della passione, della creatività e dell’intraprendenza, tutte doti certamente importanti e utili, ma, lo ribadiamo con forza, da sole non sufficienti a fare di uno studioso uno storico [6].
Difendiamo, dunque, la storiografia, quella onestamente – ossia correttamente, scientificamente praticata – difendiamola dai suoi detrattori, difendiamola dall’imperante laisser faire metodologico e contrastiamo con intransigenza l’onda montante delle pseudostorie che tanto seguito e consenso suscitano nel mercato editoriale e in un vasto pubblico di lettori. Con Marc Bloch, insuperato maestro di metodo, non stanchiamoci di intessere l’Apologia della Storia, non solo disciplina civica per eccellenza ma anche scienza che illumina e guida la politica, l’agire politico, le scelte politiche senza “fare politica”.
Bibliografia
Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1998
Angelo d’Orsi, Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, Torino, Paravia scriptorium, 19992
Jacques Le Goff, Documento/Monumento in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi Editore, 1978, vol. V
[1] Cfr. Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1998, pp. 1- 24..
[2] Scrive, infatti, Bloch: «Dietro i tratti concreti del paesaggio, [dietro gli utensili o le macchine,] dietro gli scritti che sembrano più freddi e le istituzioni in apparenza più totalmente distaccate da coloro che le hanno fondate sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda», ivi, p. 22-23.
[3] Cfr. ibidem p.24, da cui traiamo la cit.
[4] Cfr. Jacques Le Goff, Documento/Monumento in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi Editore, 1978, vol. V, pp. 38 – 43, da cui traiamo la cit. di Lucien Febvre.
[5] Cfr. Angelo d’Orsi, Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, Torino, Paravia scriptorium, 19992, p. 83, da cui traiamo le citt.
[6] Cfr. A. d’Orsi, Alla ricerca della storia, cit., passim.